“Ai lavoratori di Pozzuoli” Discorso di Adriano Olivetti per l’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, 23 aprile 1955 Tratto da: A. Olivetti, “Città dell’uomo”, Edizioni di Comunità, Milano 1959
Quando, quattro anni or sono, fu decisa la costruzione di questo stabilimento, la battaglia iniziata dalla fabbrica di Ivrea per diventare un’impresa internazionale era in pieno sviluppo.
Il problema del Mezzogiorno era già entrato da tempo nel nostro animo in tutta la sua dolorosa grandezza e quando ci pervenne un preciso invito da parte del Ministro dell’Industria, on. Campilli, oggi Ministro per il Mezzogiorno, questi non ebbe a trovare in noi troppe difficoltà nella sua generosa fatica.
Ma il problema non era nel nostro stabilirsi nel Mezzogiorno, esso consisteva piuttosto nella deviazione, impegnativa ed improvvisa, che ci avrebbe potuto distrarre dalla lotta durissima che avevamo intrapresa in Europa, nelle due Americhe, in Sud Africa.
Accettammo di buon grado il nuovo fardello. Fu un atto di fede nell’avvenire e nel progresso della nostra industria, ma soprattutto un meditato omaggio ai bisogni di queste regioni. E non si trattò soltanto di un contributo in denaro, ma anche di un autentico sacrificio dei nostri lavoratori.
Perché l’Italia è tutta colpita dalla dolorosa malattia della disoccupazione. Se le condizioni generali delle popolazioni che vivono nel Nord possono essere considerate obiettivamente di gran lunga migliori di quelle prevalenti nel Mezzogiorno, è pur vero che talune sciagure sono andate abbattendosi anche nelle nostre zone un tempo prosperose.
La crisi dei tessili e di taluni settori dell’industria meccanica ha fatto precipitare negli scorsi anni e negli scorsi mesi la situazione nella zona di Ivrea. Cinquecento meccanici perdevano il lavoro alla Zanzi di Ivrea, mille operai tessili ad Agliè, qualche centinaio ancora a Castellamonte, per giungere alla recente chiusura del Cotonificio di Caluso che ha colpito quattrocento famiglie.
Così la fabbrica di Ivrea, che usava assumere centinaia di operai ogni anno, si vide costretta, tra il ’52 e il ’54, per trasferire al Sud il suo potenziale di incremento produttivo, a ridurre o praticamente interrompere il ritmo delle sue assunzioni. Molti giovani non trovarono lavoro, molti padri dovettero attendere e ancora attendono che i figli possano conseguire una sistemazione, là dove essi stessi avevano passato gli anni migliori della loro vita. Ma nessuno ebbe a lamentarsi, nessuno indicò quale causa della sua condizione insoddisfatta, la creazione di questo stabilimento.
Perché nella coscienza dei nostri operai del Canavese è vivo il senso di solidarietà con i fratelli della Campania, della Calabria, della Lucania. Nessuno ebbe a lamentarsi, adunque. E alla fine dell’anno scorso una politica audace nel piano, minuziosa nell’esecuzione, implacabile contro gli ostacoli, la 1 politica della nostra direzione commerciale, ha creato le premesse per un altro balzo in avanti, che oggi la fabbrica, con ingente sforzo di uomini e di mezzi, sta realizzando in tutti i suoi settori.
I fatti salienti nella storia della nostra industria sono quest’anno, nel campo commerciale, l’apertura di una nuova organizzazione di distribuzione nel Canadà e nel campo produttivo, il definitivo assetto, la piena efficienza di questo stabilimento. L’apertura di uffici a Toronto e a Montreal, è l’ultimo svolgimento di un’azione che, impostata fin dal lontano 1921 per portare i nostri prodotti sul mercato mondiale, doveva raggiungere soltanto negli anni recenti una più compiuta espressione nella rete delle nostre quattordici società alleate di cui tre nel Commonwealth Britannico, cinque in Europa e quattro nell’America Latina, coi cinque stabilimenti di Barcellona, Glasgow, Buenos Aíres, Johannesburg, Rio de Janeiro, ed oltre tremila operai1 . Innalzare le nostre insegne a New York come a Francoforte, a Vienna come a San Francisco, a Rio de Janeiro o a Città del Messico o nella lontana Australia, organizzare officine, istruire venditori, persuadere una clientela diffidente della bontà del prodotto italiano, garantire l’efficienza del personale, assicurare ovunque un servizio di assistenza tecnica, difendere sempre il livello artistico e l’omogeneità grafica delle nostre espressioni pubblicitarie, imporre ad ogni costo la lealtà dei nostri metodi commerciali, non fu cosa né facile né rapida.
E questa lotta non avrà mai fine, poiché la concorrenza, le invenzioni, i perfezionamenti non hanno limiti e dovremo, sotto questo riguardo, non dar mai segni di stanchezza, alimentando di nuove forze tecniche i nostri laboratori di ricerche, i nostri centri di studi. Ma c’è fortunatamente qualcosa che abbiamo finalmente compiuto. Ed è la nostra rete di distribuzione mondiale. Aprendo i nostri uffici nel Canadà, possiamo considerare conclusa l’epoca dell’espansione territoriale e iniziata una epoca di più raffinata penetrazione dei mercati.
Tra pochi anni la nostra ambizione di fare di questa industria italiana un tipo di industria che si avvicini nelle dimensioni e nel rendimento ai grandi organismi d’Oltreoceano, sarà compiuta e ne vedremo permanentemente le conseguenze sul piano sociale, verso un più alto livello di salari ed un orario di lavoro più ridotto2 . Raggiungeremo queste mete, ormai non più lontanissime, anche mediante l’aumento continuo del numero e della qualità dei nostri prodotti.
Abbiamo oggi quattro modelli di macchine calcolatrici e quattro modelli di macchine per 1 Nel 1959 le società estere raggiungevano 12.700 dipendenti di cui oltre 5.000 operai, portando il totale dei dipendenti Olivetti a 24.700 unità. 2 Negli anni 1956-57 l’orario di lavoro in tutti gli stabilimenti Olivetti in Italia fu portato a 45 ore settimanali divise in 5 giornate di 9 ore; contemporaneamente i salari medi tra il 1955 e il 1958 crebbero del 9%. 2 scrivere. Essi escono dai nostri stabilimenti al ritmo ormai superato, di oltre 1.000 macchine al giorno. Era questa la produzione che nel 1925 la più grande fabbrica americana di quel tempo 7 – la Underwood – raggiungeva a Hartford nel Connecticut.
Mi fermai un giorno a guardare le sue mura raccolte, che nascondevano un segreto che mi premeva raggiungere. Quel segreto non era nuovo: esso stava di già racchiuso nel codice morale che l’industria, sotto la guida di mio padre, aveva stabilito e nel rigore scientifico che non era mai mancato all’ingegno italiano. Il segreto del nostro futuro è fondato, adunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda.
Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa.
Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l’opera della nostra Società. Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna.
La fabbrica di Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta.
La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.
Questo stabilimento riassume le attività e il fervore che animano la fabbrica di Ivrea. Abbiamo voluto ricordare nel suo rigore razionalísta, nella sua organizzazione, nella ripetizione esatta dei suoi servizi culturali ed assistenziali, l’assoluta indissolubile unità che la lega ad essa e ad una tecnica che noi vogliamo al servizio dell’uomo onde questi, lungi dall’esserne schiavo, ne sia accompagnato verso mete più alte, mete che nessuno oserà prefissare perché sono destinate dalla Provvidenza di Dio. Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica.
La natura rischiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza. La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile. Talché oggi questa fabbrica ha anche un altro valore esemplare per il futuro del nostro lavoro nel Nord e ci spinge a nuove realizzazioni per creare nuovi ambienti che traggano da questa esperienza insegnamento per più felici soluzioni.
Ora che la fabbrica è compiuta a noi dirigenti spetta quasi tutta la responsabilità di farla divenire a poco a poco una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe infine della vita stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di elevamento sociale: voglio alludere all’ammirevole città di Pozzuoli e ai suoi incomparabili dintorni. L’uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel profondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio. Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una míllenaria civiltà di contadini e di pescatori.
Per questa civiltà, che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale ed importante, la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini, erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti. L’uomo operava con le sue mani, esercitando i suoi muscoli, traendo direttamente dalla terra e dal mare i mezzi dì vita. Lo sconvolgimento di due guerre ha spinto l’uomo definitivamente verso l’industria e l’urbanesimo. Esso ha strappato il contadino alla terra e lo ha racchiuso nelle fabbriche, spinto non solo dall’indigenza e dalla miseria, ma dall’ansia di una cultura che una falsa civiltà aveva confinato nelle metropoli, negandola alle campagne del Sud. 4 Nacque così il mondo operaio del Nord in cui la luce dello spirito appare talvolta attenuata, in cui la spinta per la conquista di beni materiali ha in qualche modo corrotto l’uomo vero, figlio di Dio, ricco del dono di amare la natura e la vita, che usava contemplare lo scintillio delle stelle e amava il verde degli alberi, amico delle rocce e delle onde, ove, tra silenzi e ritmi, le forze misteriose dello spirito penetrano nell’anima per la presenza di Dio.
Abbiamo lottato e lotteremo sempre contro questo immenso pericolo; l’uomo del Sud ha abbandonato soltanto ieri la civiltà della terra: egli ha perciò in sé una immensa riserva dì intenso calore umano. Questo calore umano l’emigrante meridionale lo ha portato e donato in tutti i paesi del mondo ed è un segno inconfondibile del contributo che l’Italia ha dato alle civiltà d’Oltreoceano fecondate con un sacrificio in gran parte misconosciuto. Ed ecco perché in questa fabbrica meridionale rispettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare l’uomo che doveva, entrando qui, trovare per lunghi anni tra queste pareti e queste finestre, tra questi scorci visivi, un qualcosa che avrebbe pesato, pur senza avvertirlo, sul suo animo. Perché lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica e le macchine e i banchi e gli altri uomini per produrre qualcosa che vediamo correre nelle vie del mondo e ritornare a noi in salari che sono poi pane, vino e casa, partecipiamo ogni giorno alla vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e alle sue cose più grandi, finiamo per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra, il lavoro diventa a poco a poco parte della nostra anima, diventa quindi una immensa forza spirituale.
Per questo motivo, un giorno questa fabbrica, se le premesse materiali e morali intorno ai fini del nostro lavoro saranno mantenute, farà parte di una nuova e autentica civiltà indirizzata ad una più libera, felice e consapevole esplicazione della persona umana. E’ questo l’augurio più alto che mi è caro rivolgere parlando oggi, per la prima volta, ai nostri lavoratori di Pozzuoli, onde per lunghissimi anni la Provvidenza di Dio protegga la loro coscienziosa e intelligente fatica, per farla risplendere in pacata letizia sulle loro case e sulle loro amate famiglie. Questo sabato di primavera, in cui consacriamo con lieta cerimonia questa fabbrica frutto della fatica di tutti, non può non essere giorno di festa per Ivrea e per Pozzuoli, come per Torino e per Massa, ove sorgono gli altri stabilimenti. E si potrà anche chiamare, questa festa, festa dell’amicizia tra Nord e Sud, festa di fraterna comprensione di lavoratori e di capi, perché nell’opera si sigilla un periodo nuovo nella restaurazione del Mezzogiorno, perché l’industria del Nord dimostra di avere preso coscienza di quel millenario problema e di averlo avviato, con impegno di dignità e di rispetto umano, verso la soluzione. Senza dubbio ben altre operazioni, ben altre iniziative, ben altri piani, dovranno avvenire nei prossimi anni perché l’unità economica del Mezzogíorno possa essere premessa indispensabile dell’unità morale della nostra Patria.
Noi opereremo ancora in questa direzione potenziando, anno per anno, questa fabbrica e quelle iniziative che da essa potranno trarre vita. Essa è destinata nei 5 nostri piani ad aumentare grandemente la propria dimensione quando aggiungeremo nuovi modelli alle attuali linee di produzione. In questi anni la rivoluzione unificatrice – rimasta interrotta allorché all’unità politica non seguì una vera unità morale e materiale fra Nord e Sud – si va finalmente compiendo. Un nuovo fervore di opere percorre tutta la penisola, e una nuova concreta speranza di rinnovamento e di benessere si apre per tutti gli italiani.
Grazie a questa realizzazione possiamo avere anche noi l’orgoglio di aver contribuito, nella misura delle nostre forze, a tale felice risveglio. Così possiamo concludere affermando che lo stabilimento di Pozzuoli è – almeno per noi – ben più di un attrezzato ed efficiente strumento di produzione: è un simbolo del modo in cui noi crediamo di dover affrontare i problemi dell’oggi, un simbolo delle cose che ci affaticano, ci animano e ci confortano.