TORRE CAVALLO

Torre cavallo è una piccola torre che si erge a precipizio sul mare proprio all’imbocco dello Stretto di Messina sul promontorio che porta lo stesso nome: Capo Cavallo.

Di essa oggi non restano che pochi ruderi, riflesso cristallino dell’incuria di tutte le amministrazioni che si sono succedute nei secoli, forse perchè lontana dagli appetiti e dagli interessi urbanistici spesso di esclusivo appannaggio di una esclusiva elite.

 

 

A questo bisogna aggiungere i danni arrecatile dai terremoti che nei secoli hanno devastato l’area dello Stretto. Fino al 1783, anno del disastroso terremoto che colpì la provincia reggina, la torre era ancora in buone condizioni, riferisce il Minasi di Scilla (“Notizie storiche della città di Scilla”, Napoli 1889), come pure lo era durante il periodo dell’occupazione francese d’inizio 1800, come riportano parecchi documenti d’archivio relativi al corpo di guardia ivi presente in funzione anti-inglese, mentre oggi, come su accennato, la detta torre si trova in pessimo stato di conservazione ed in quasi totale stato di abbandono.

Narra sul finire del 1700 il dotto naturalista scillese Domenico Minasi che “…la torre ora è custodita da due soldati invalidi. Successe agli anni scorsi che il gallo delle loro galline inseguito da una maledetta volpe, si rifugiasse in una nassa che un pescatore scillitano avea sopra uno di quegli scogli appoggiata per asciugarsi nascendo il Sole. Vi si ficcò anche dentro in furia la maliziosa bestia, e subito rotolando ambedue colla nassa in mare, piombarono senza scampo giù in fondo, ove con eguale, ma amara morte, perirono. Or sopraggiungendo al tramontar del Sole colla sua barchetta il pescatore e da lungi credendo rapita la sua nassa, non la ritrovò però mai così stranamente ripiena, quanto in quella occasione. Dapoichè oltre la selvaggia e domestica preda, vi invenne nel tirarla su dal fondo anche una viva e grossa cernia”.

 

 

Torre Cavallo è costituita da due parti: una superiore, cilindrica, adibita all’alloggiamento del presidio ed una inferiore, a scarpa, adibita alla cisterna e alle munizioni.

Le due parti sono divise tra di loro da un cordone in pietra. La camera superiore presenta la parete verso mare interamente cieca, salvo per le feritoie e per una porta che guarda verso monte.

Il professore Federico Barillà all’inizio del 1800 così   descrive la torre dopo averla visitata di persona: “…e siamo stati lieti di trovarci dinanzi a una buona torretta del ‘500. Base scarpata di 5 metri, cordone a gola, 5 metri di diametro al cordone, sopra questo presso a 6 m di corpo cilindrico: figura dunque sveltissima… Oltre il parapetto nel giro della Marina vi è il postergale con le feritoie a difesa contro le soprastanti alture il quale sembra di cattiva muratura moderna e non abbiam potuto accertarci che non sia una restaurazione… Osservammo l’antica porta della Torre. Essa secondo la precisa tecnica militare dell’epoca per codeste torri isolate è alta con la soglia al cordone accessibile per via del ponte volante sopra la porta poi è là, tuttora vegliante da tre secoli, la bocca minacciosa del piombatoio, il vero e proprio piombatoio di cui non sopravvive alcun altro esempio che io sappia in tutto quel di Reggio”.

Il piombatoio era una fessura a forma di feritoia praticata nello sporto della Torre. Esso consentiva la difesa della torre tramite appunto la difesa piombante consistente nel rovesciare sul nemico che assediava la torre sia liquidi infiammabili o bollenti come olio o calce liquida sia materiali solidi come pietre. E grazie anche alla configurazione a scarpa della nostra torre il materiale lanciato dal piombatoio veniva accelerato o addirittura rimbalzato sul nemico grazie appunto alla scarpatura. E come dice il Barillà Torre Cavallo era l’unica torre costiera del reggino a essere munita di piombatoio.

Ma è una diversa unicità quella che la caratterizza oggi: essa purtroppo è l’unica torre costiera ridotta a un rudere, per volere sia della Natura che dell’Uomo. Secoli di Storia, di cui la popolazione locale dovrebbe andar fiera, abbandonati su un capo all’entrata dello Stretto di Messina, un capo di cui hanno parlato i più grandi Storici del passato più remoto e dell’età di mezzo.

Enzo Greco